sabato 24 agosto 2024

Il virus che rende folli - Bernard-Henri Lévy

Un libro che lascia un sapore strano in testa, come se l'autore si fosse perso a metà strada: tra la paura e la razionalità.

Dopotutto quello di BH Lévy è un libro sulla pandemia scritto durante la pandemia, quando forse essere lucidi era dura per tutti. Sarei curiosa di sapere cosa ne pensa oggi questo filosofo (per capire appieno la sua posizione e pensiero).

Sempre edito da Le Onde - la nave di Teseo (come:  Manifesto del Libero pensiero e Libri al rogo)  , Il virus che rende folli è un tentativo di analisi di come la pandemia abbia travolto le nostre vite non solo a livello sanitario ed economico ma anche di raziocinio "portandoci a una specie di follia collettiva in cui si sono perse priorità, chiarezza di sguardo, obiettivi e capacità di giudizio".

Nonostante le piccole dimensioni, questo libro richiede una certa concentrazione ed attenzione: è proprio un libro scritto da un filosofo :-)

Nel prologo Lévy ricorda le dimenticate epidemie del '68 di Hong Kong e dell'asiatica di dieci anni prima. Poi si addentra nella constatazione di come il potere medico sia

asceso a livelli mai visti prima nonostante "i medici, prima di tutto, non sempre hanno più informazioni di noi, e c'è qualcosa di assurdo nella cieca fiducia riposta in loro". Cosa che mi aveva detto anche un otorino quando avevo chiesto come mai, dopo la prima operazione al naso, ancora non respirassi bene: signorina, anche i medici possono sbagliare...

Nel secondo capitolo Divina sorpresa l'autore scrive inorridito di come durante la pandemia si sia arrivati a sentire gente che diceva il virus era una benedizione in quanto ci stava facendo riscoprire la bellezza delle piccole cose, l'introspezione, il rallentare in un mondo che fino ad allora scorreva veloce e indifferente.  Secondo Lévy non si può invece trarre nessuna lezione sociale da una pandemia se non la constatazione che per il sistema sanitario non ci siano mai abbastanza fondi per la ricerca e gli ospedali. In nessun paese.

Il quarto capitolo: La vita, dicono vede passare in rassegna le bizzarrie vissute in periodo di lockdown quando nei supermercati gli articoli di cancelleria erano sigillati o quando si veniva seguiti con i cani affinché si rispettassero i duecentocinquanta metri di lontananza da casa o quando si poteva bere il caffè in piedi e dopo un mese lo si doveva bere seduti... la chiusura di chiese e luoghi di culto oltre che parchi e musei "dove l'umanità ha l'abitudine di soddisfare la sua sete spirituale, non quantificabile, non commerciabile". C'è anche una frecciatina rivolta al Papa, in teoria discepolo di Dio, "che si distanzia dal popolo cristiano, comunicando solo via internet ... e fa la sua Via Crucis sul sagrato deserto di una piazza San Pietro deserta"... gli anziani isolati e dimenticati nelle RSA, il ritorno senza vergogna dei delatori pronti a denunciare ogni runner sotto il loro balcone e qualsiasi vicino che apriva un po' più spesso la porta (la nostra, di vicina, disinfettava la merce del supermercato, le scarpe e i pomelli - di casa sua! - ogni volta che rientrava in casa).

Questo sulla vita è il capitolo più bello, quello che spinge a riflettere su cosa sia la vita e che cosa si sia arrivati a rinunciare per preservarla. Ma, si chiede Lévy: la vita, è vita, se è solo vita?


Ed è con questa frastornante domanda che vi saluto, augurandovi come Bernard-Henry di resistere a questo vento di follia che soffia sul mondo.


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