Pubblicato sul Corriere della Sera il 29 aprile 2024:
Riflessioni sulle conseguenze della pandemia: una intensa carica emotiva prolungata nel tempo corrode ogni tipo di ragionevolezza e sparge materiale infiammabile che è sempre più difficile da controllare.
L’esperienza del Covid ha lasciato cicatrici profonde.
Mi ha molto colpito, tempo fa, scoprire che il filosofo Karl Jaspers, al discorso di riapertura dell’università di Heidelberg nell’agosto del 1945, parlando della strada che avrebbe potuto portare i tedeschi a tornare a essere uomini liberi, metteva come primo passo da compiere la necessità di rinunciare alle frasi fatte e al falso pathos. Istintivamente mi sono venuti in mente gli anni del Covid, anni in cui il pathos — cioè quell’insieme di eccitata passionalità che attiene alla tragedia — ha raggiunto e superato i limiti di guardia. Limiti che, malgrado siano passati ormai quattro anni, vengono tutt’ora superati in modo inquietante. Non c’è stata dunque una pacificazione, ma soltanto uno stato di assopimento non molto diverso dalla condizione di alcuni vulcani che sembrano quieti e poi, all’improvviso, eruttano cancellando con la loro lava incandescente ogni cosa intorno a loro. Siamo dunque accampati su un cratere apparentemente inattivo, le bocche laterali emettono fumi, ma noi, anziché entrare in uno stato di allarme, fingiamo di non vederle. Perché? Perché una situazione di pathos prolungata nel tempo corrode ogni tipo di ragionevolezza e
sparge nell’aria materiale infiammabile che è sempre più difficile da controllare.La nostra società è stata attraversata da una vera e propria guerra civile e lo stupore non è tanto che ci sia stata — succede — ma che la memoria di questo periodo si sia trasformata in un intoccabile tabù. La balcanizzazione dei pensieri, e di conseguenza dei sentimenti, non porta di solito in luoghi ameni né dona energia positiva ai Paesi in cui si sviluppa. Le sue radici infatti, come quelle sotterranee e caparbie della gramigna, corrono ovunque e, con la loro forza, imbrigliano tutto ciò che di buono e di bello vorrebbe venire la luce. I fatti sono più che noti. Nel gennaio del 2020 scoppia in Cina un’epidemia provocata da un virus respiratorio; possiamo dire che le immagini continuamente ripetute dalla tv cinese — che mostravano la fulminea costruzione di ospedali da campo per ospitare i sempre più numerosi contagiati — abbia dato il «la» al pathos mondiale. Da noi, ignari del fatto che i virus si spostano con le persone e confortati forse dal ricordo delle due precedenti epidemie di virus della stessa famiglia, la Sars e la Mers che non erano dilagate nel mondo, abbiamo perso tempo prezioso. Ben presto è stato chiaro che il Covid-19 si distingueva dai suoi predecessori per due caratteristiche, una negativa e l’altra positiva. La prima era la sua altissima trasmissibilità; la seconda la sua bassa mortalità. Quella della Sars era al 10%, mentre la Mers si attestava al 30%. Il professor Matteo Bassetti, illustre infettivologo, in un’intervista del febbraio del 2020, stimava invece la mortalità del Covid19 intorno al 3%, mentre la ricercatrice Ilaria Capua, in un articolo del febbraio del 2020, riportava l’editoriale di un direttore dell’agenzia Nih — dipartimento della Salute degli Stati Uniti — «secondo i cui studi la sindrome similinfluenzale da Coronavirus avrebbe un tasso di mortalità più basso dell’1 per cento». Nel Novecento il mondo è stato colpito da tre grandi epidemie di tipo influenzale: la Spagnola che, dal 1918 al 1920, si è abbattuta su un mondo debilitato da quattro anni di guerra, falcidiando centinaia di milioni di persone; l’asiatica, nel 1957 e, nel 1968, la Spaziale. Nel 1968 avevo undici anni, l’ho presa e, dato che il sistema respiratorio è sempre stato il mio punto debole, sono finita una settimana in ospedale. Quante persone sono morte per l’asiatica e la Spaziale non è dato saperlo perché allora non esistevano i tamponi, non si contavano le vittime né gli ospedali avevano reparti specializzati per queste epidemie, inoltre il fatto che molte persone anziane e con patologie morissero per un’influenza particolarmente insidiosa era un dato comunemente accettato. Il mondo comunque non si era fermato né si erano sviluppati fenomeni di psicosi di massa come se ne sono visti purtroppo al tempo del Covid-19. Penso che questo mutamento di percezione possa essere dovuto, in parte, ai grandi passi avanti compiuti dalla medicina nell’ultimo mezzo secolo, che ci hanno donato una sensazione di quasi invincibilità. Scoprirsi improvvisamente mortali, assistere alla fila delle autoambulanze davanti agli ospedali è stato uno shock a cui nessuno era preparato. Nella frenesia velata di onnipotenza che caratterizza il nostro tempo, abbiamo dimenticato ciò che per le generazioni precedenti era un’assoluta ovvietà: noi esseri umani nasciamo con un’invisibile data di scadenza, e quella data è il mistero della nostra finitezza, una finitezza sulla quale non siamo più abituati a riflettere. Anche nella mia memoria rimangono fissate le terribili immagini della primavera del 2020 e ogni volta che ci ripenso non riesco a togliermi dalla testa una sola e inquietante domanda: per quale ragione la nostra medicina, così meravigliosamente avanzata, davanti al flagello di quel virus è rimasta per quasi un anno a braccia conserte? Non era forse il Sarscov-2 un coronavirus, come la Sars e la Mers, dunque appartenente a una famiglia già conosciuta? Nel 2020 molti miei amici, tutti over 60, hanno contratto il virus; ricordo ancora l’angoscia di sentire le loro voci al telefono spegnersi giorno dopo giorno dato che nessun medico andava a visitarli né dava loro una cura. Dovevano solo aspettare, ma aspettare inermi, in caso di malattie così virulente, vuol dire solo aspettare la morte. Eppure nello stesso marzo del 2020 un amico medico «sì sì vax» mi disse di aver capito che i problemi erano legati ai trombi e di essere riuscito a curare molte persone che erano ormai a un passo dal ricovero; l’importante, mi aveva detto, era agire presto: meglio entro tre giorni ma anche entro cinque ce la si poteva ancora fare. Dunque la possibilità di curare esisteva. L’abbandono terapeutico, lo sventolare bandiera bianca, ci parla di un’assoluta impotenza e questa impotenza della scienza ha posto in essere, nell’immaginario collettivo, la trasformazione del virus del Covid-19 da una realtà fisica a una metafisica: un demone infernale sceso sulla terra per scaraventarci tutti nel regno della morte e della disperazione. E ormai sappiamo dagli studi sui ratti che il senso di impotenza è un fattore determinante per far crollare il sistema immunitario. Solo un evento messianico poteva salvarci da quel demone e l’evento finalmente si è compiuto. Il 25 dicembre del 2020 è arrivato il vaccino. Un mondiale sospiro di sollievo. A questo punto si potrebbe dire come, nelle fiabe, tutto è bene quel che finisce bene ma, purtroppo, così non è stato; da quel momento in poi il livello del pathos è andato completamente fuori controllo, scatenando la guerra civile di cui tutt’ora paghiamo il prezzo. Dovevi stare da una parte o dall’altra, credere nella scienza o appartenere ai fanatici del terrapiattismo, tertium non datur. Ma è proprio questo verbo «credere» che riporta in gioco il livello metafisico; personalmente io confido nella scienza, e questa fiducia è ricca di gratitudine, ma non posso credere in lei in senso assoluto perché la medicina è sempre andata avanti attraverso un gran numero di tentativi tra i quali erano compresi anche inevitabili errori; per questo credere in una medicina come scienza perfetta e intoccabile vuol dire negare la sua stessa essenza. Però già allora qualche domanda sul vaccino MRNA me la ero fatta perché ritengo che entrare in quello che Erwin Chargaff, il grande biochimico, definisce il «mistero impenetrabile», il Dna, abbia un risvolto di hybris che è sano Abbiamo dimenticato l’ovvio: che noi umani nasciamo con una data di scadenza invisibile non sottovalutare. Così mi sono informata e ho scoperto che nel nuovo millennio erano stati fatti diversi tentativi di creare dei vaccini MRNA, soprattutto nel campo della lotta ai tumori; purtroppo però nessuno di quei tentativi era andato a buon fine. Comunque, per fugare i miei dubbi, avevo consultato le Faq del ministero della Salute che mi avevano tranquillizzato; dicevano infatti che la proteina Spike sarebbe rimasta nel luogo dell’inoculo e si sarebbe dissolta in breve tempo, così mi sono sottoposta al vaccino. Gli studi recenti però ci hanno fornito qualche dato in più: pare che la Spike condivida con il virus il gusto di andare in giro, il primo per il mondo e la seconda nel nostro corpo, raggiungendo tutti i nostri organi e tutti i nostri tessuti come un ospite inatteso. E con gli ospiti inattesi che parlano un’altra lingua, non si è in grado di sapere quale dialogo si potrà instaurare. Essendomi sottoposta a due dosi di Pfizer, mi avevano detto che starei stata in una botte di ferro per almeno un anno ma quando, dopo pochi mesi, ho appreso che avrei dovuto fare la terza dose, ho cominciato a sospettare che quella botte fosse soltanto una barchetta di carta. Intanto il virus si era trasformato nella variante Omicron, infinitamente meno aggressiva, ma il terzo vaccino andava fatto per legge, a scapito dei propri diritti civili e della propria libertà. A quel punto mi sono chiesta, qual è lo scopo di tutto ciò: rendere la popolazione immune o consumare tutti vaccini acquistati? Anche perché intanto tutte le persone trivaccinate intorno a me si ammalavano e si riammalavano di Covid. Così mi è venuta la curiosità di leggere il bugiardino aggiornato del Comirnaty Omicron XBB.1.5 della Pfizer e ho appreso che «l’efficacia del vaccino non è stata verificata nei soggetti immunocompromessi» e che «la durata della protezione dal vaccino non è nota, sono tutt’ora in corso studi clinici volti a stabilirla». Per quanto riguarda l’efficacia ribadivano che «come per tutti i vaccini, la vaccinaziovenuta, ne con Comirnaty Omicron XBB.1.5 potrebbe non proteggere tutti coloro che lo ricevono». Davanti a questa incertezza terapeutica non ho potuto non chiedermi cosa giustificasse le drammatiche limitazioni della nostra libertà, che hanno distrutto l’economia oltre a devastare l’equilibrio e la salute mentale dei ragazzi, dei bambini e la nostra. Con scrupolo da scrittore, mi sono chiesta allora se fosse corretto il termine «vaccino» perché ogni vaccino, secondo il vocabolario della lingua italiana, serve ad acquisire un’immunità attiva, ma la quantità di infettati vaccinati non ci parla di questo. Quando poi ho letto, sempre nello stesso bugiardino, che «è possibile, dopo la vaccinazione, sviluppare una miocardite e pericardite», mi sono resa conto che nel frattempo, sui media, stava avvenendo qualcosa di non molto diverso dal gioco delle tre carte: tanto, nell’anno delle braccia conserte, tutte le morti erano dovute al Covid — in molti casi con tampone post mortem — altrettanto, a vaccinazione di massa avnessun danno alla salute era conseguente al vaccino. Com’è possibile, razionalmente, non capire che un prodotto innovativo, approvato con grande rapidità e con scarsa sperimentazione, possa creare dei danni nelle persone, e che questi danni, in molti casi, siano realtà ancora sconosciute e senza nome anche per gli stessi medici, dato che quando si entra nel «mistero impenetrabile» possono succedere cose che non siamo ancora in grado di comprendere? Sono stata testimone di tre gravi effetti avversi avvenuti intorno a me, persone che conosco da decine di anni e sulla cui salute fisica e mentale non ho alcun dubbio: una miocardite seguita da un infarto fulminante, una pericardite, un’ischemia insorta 48 ore dopo il vaccino seguita da un problema neurologico che ha portato a una parziale paralisi alle gambe. Se una persona fino ad allora in ottima salute comincia a sentirsi male qualche giorno dopo la vaccinazione e in quel malessere non viene riconosciuta alcuna relazione con l’inoculo, si deve tornare ancora una volta nella dimensione metafisica: una fattura, un malocchio o un movimento infausto degli astri. Dato che il messia era arrivato, non è più possibile mettere in dubbio la sua potenza salvi- fica. Mentre molti Paesi hanno messo in piedi già da tempo delle équipe di studiosi per cercare di capire quello che sta succedendo nel corpo dei danneggiati dai vaccini, da noi gli stessi danneggiati vengono trattati come degli impostori. Se impostori sono, come i tanti e troppi che usufruiscono di pensioni di invalidità senza averne diritto, lo Stato ha il dovere di smascherarli; ma se impostori non sono, lo stesso Stato ha il dovere assoluto di prendersi cura in ogni modo possibile di questi cittadini che hanno obbedito alle leggi e che ora hanno la vita devastata dalle conseguenze di questa obbedienza. La scienza, quando è tale, non si mette le mani sugli occhi, sulle orecchie e sulla bocca come le famose scimmiette ma, come prima cosa, desidera indagare. Nella fretta dell’urgenza, infatti, non è stata fatta alcuna anamnesi prima del vaccino, non sono state concesse esenzioni a chi avrebbe invece dovuto averle, non è stato permesso il conteggio degli anticorpi prima della terza dose, per capire se fosse davvero necessaria, costringendo inoltre le persone che avevano avuto un importante Covid, a vaccinarsi comunque, come se la malattia non desse alcuna immunità. E da ultimo nessuno ha mai spiegato se fosse opportuno e possibile miscelare vaccini a vettori diversi nelle varie somministrazioni. C’è dunque ancora tanto da indagare, tanto da capire per poter fare un passo avanti in campo scientifico. Solo questo passo potrà rendere giustizia alla sofferenza e alle tante umiliazioni che questa situazione ha sparso a piene mani nella nostra società. È delle domande, è dei dubbi che abbiamo una terribile nostalgia. Tornare a farsi domande è l’antidoto a ogni possibile futuro pathos, perché interrogarsi, parlare, cercare di comprendere sono le uniche azioni che ci permettono di tornare nel dominio del reale e dell’umano.
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