Non so bene che cosa spinge una persona a prendere un libro al posto di un altro. Sono entrata alla Feltrinelli sperando di trovare qualcosa che mi facesse dimenticare a breve la delusione Moccia e girando tra gli scaffali mi sono imbattuta in questo libro con la copertina verde con una farfalla stampata nel mezzo..il titolo "PERDERSI", la scrittrice LISA GENOVA.
La storia che viene raccontata è quella di una rispettata docente universitaria, moglie e madre di 3 figli grandi, che all'età di 50 anni inizia pian piano a perdere la memoria a causa di una forma di Alzheimer presenile: una parola dimenticata durante una lezione, gli ingredienti di una torta preparata a memoria per anni, la dimenticanza della strada che la riporta a casa fino ad arrivare al non riconoscere più i propri cari "Sapeva di avere una figlia di nome Lydia, ma quando guardava la giovane donna che aveva di fronte, sapere che quella era sua figlia Lydia era più una nozione accademica che una vera certezza, un fatto su cui concordare, un'informazione che aveva ricevuto e accettato come vera".
Viene raccontato in modo molto semplice e chiaro il lento declino di questa donna, il calvario delle visite (all'inizio fatte da sola per non pesare sulla famiglia) che la porteranno a conoscere il suo destino, le umiliazioni che subirà soprattutto in ambito lavorativo, il cambiamento nei rapporti con il marito e con i figli, il cercare di ricostruirsi cercando conforto in chi come lei è stato colto da questo male, in pratica il tremendo percorso che la porterà alla totale demenza.
Copio e incollo un pezzo del libro nel quale Alice (la protagonista) racconta il suo Alzheimer:
«Buongiorno. Sono la dottoressa Alice Howland. Ma non sono una neurologa e neppure un medico generico. Il mio dottorato è in psicologia. Ho insegnato alla Harvard University per venticinque anni. Ho tenuto corsi di psicologia cognitiva, ho condotto ricerche nel campo della linguistica e tenuto conferenze in tutto il mondo.
Ma oggi non sono qui per parlarvi in qualità di esperta di psicologia o di linguaggio. Oggi sono qui per parlarvi come esperta del morbo di Alzheimer. Non curo pazienti, non conduco sperimentazioni cliniche, non studio mutazioni del DNA né offro sostegno psicologico ai pazienti o alle loro famiglie. Sono esperta dell’argomento perché poco più di un anno fa mi è stata diagnosticata una forma presenile di Alzheimer.
Sono onorata di avere quest’opportunità̀ di parlare con voi oggi, nella speranza di potervi fornire qualche indicazione su cosa significhi convivere con la malattia. Presto, pur continuando a sapere cosa si prova, non sarò più in grado di raccontarvelo. E anche troppo presto non avrò più nemmeno coscienza di essere malata. Perciò quello che ho da dirvi oggi arriva al momento giusto.
Nella fase iniziale dell’Alzheimer noi malati non siamo del tutto incapaci. Non siamo privi di linguaggio o di opinioni che contano o di prolungati periodi di lucidità. Eppure non siamo più affidabili né all’altezza della maggior parte dei compiti richiesti dalla nostra precedente esistenza. Sentiamo di non stare né da una parte né dall’altra, come qualche folle personaggio del dottor Seuss in una terra bizzarra. È un posto molto solitario e frustrante in cui ritrovarsi.
Non lavoro più a Harvard. Non leggo e non scrivo più libri o articoli di ricerca. La mia realtà è completamente diversa da com’era poco tempo fa. E distorta. I percorsi neurali che utilizzavo per comprendere quello che mi viene detto, quello che penso e quello che succede in- torno a me sono invischiati nell’amiloide. Combatto per trovare le parole che vorrei dire e spesso sento di dire parole sbagliate. Non riesco a giudicare le distanze spaziali, questo significa che mi cadono le cose e cado spesso e riesco a perdermi a due isolati da casa. E la mia memoria a breve termine è appesa a un paio di fragili fili.
Sto perdendo i miei ieri. Se mi chiedeste cos’ho fatto ieri, cos’è successo, cos’ho visto e sentito e ascoltato, mi sarebbe molto difficile fornirvi i dettagli. Posso forse azzeccare un paio di cose. Sono brava a tirare a indovinare. Ma non è che lo sappia davvero. Non mi ricordo di ieri e neppure dell’altro ieri.
E non ho alcun controllo su quali ieri posso ricordare e quali vanno perduti. Con questa malattia non si può patteggiare. Non posso scambiare i nomi dei presidenti degli Stati Uniti con quelli dei miei figli. Non posso rinunciare ai nomi delle capitali di Stato e trattenere i ricordi di mio marito.
Ho spesso paura del domani. E se mi svegliassi senza riconoscere mio marito? Se non sapessi dove mi trovo o non mi riconoscessi allo specchio? Quando smetterò di essere me stessa? La parte del mio cervello responsabile del mio essere me stessa e nessun’altra è vulnerabile alla malattia? O la mia identità è qualcosa che trascende neuroni, proteine e difetti molecolari del DNA? Il mio corpo e il mio spirito sono immuni dal saccheggio dell’Alzheimer? Io credo di sì.
Sentirsi diagnosticare l’Alzheimer è come essere marchiato con una lettera scarlatta. È quello che sono adesso, una persona affetta da demenza. E il modo in cui, per un certo periodo, mi definirò io, e poi continueranno a definirmi gli altri. Ma io non sono quello che dico o quello che faccio o quello che ricordo. In realtà sono molto di più.
Sono una moglie, una madre, un’amica e presto sarò una nonna. Provo ancora sentimenti, capisco e merito l’amore e la gioia di questi rapporti. Sono ancora un membro attivo della società. Il mio cervello non funziona più al meglio ma uso gli orecchi per ascoltare senza riserve, offro le mie spalle per piangere e le mie braccia per stringere altre persone malate come me. Attraverso un gruppo di sostegno per l’Alzheimer presenile, attraverso il DASNI, parlando oggi qui davanti a voi, sto aiutando chi soffre di demenza a convivere al meglio con la malattia. Non sono una persona che sta morendo. Sono una persona che vive con l’Alzheimer. E cerco di farlo nel modo migliore possibile.
Vorrei incoraggiare la diagnosi precoce, chiedendo ai medici di non dare per scontato che problemi cognitivi e di memoria in persone di quaranta o cinquant’anni di- pendano sempre da depressione o stress o menopausa. Prima riceviamo una diagnosi corretta, prima possiamo iniziare le terapie e avere la speranza di ritardare il progresso della malattia e rimanere stabili abbastanza a lungo da sperare nei benefici di una nuova cura o di una nuova sperimentazione. Ho ancora la speranza di una cura per me, per i miei amici affetti da demenza, per mia figlia che è portatrice della medesima mutazione genetica. Forse non sarò mai più in grado di recuperare quello che ho perduto, ma posso conservare quello che ho ancora. E ho ancora molto.
Per favore, non limitatevi a guardare la nostra lettera scarlatta e a cancellarci dalla vostra vita. Guardateci ne- gli occhi e parlate con noi. Non spaventatevi e non prendetela come un’offesa personale quando faremo degli errori, perché li faremo. Ripeteremo le stesse cose, cambieremo posto alle cose e ci perderemo. Ci dimentiche- remo come vi chiamate e cos’avete detto due minuti prima. Faremo anche del nostro meglio per compensare e nascondere le nostre lacune cognitive.
Vi incoraggio a darci maggiore autonomia, anziché limitarci. Se una persona ha una lesione alla spina dorsale, se ha perso un arto o è disabile per un ictus, la famiglia e i sanitari che l’assistono fanno del loro meglio per favorirne la riabilitazione, per trovare il modo di affrontare e superare le perdite. Lavorate con noi. Aiutateci a sviluppare soluzioni che ci permettano di aggirare i nostri deficit di memoria, linguaggio e capacità cognitive. Incoraggiateci a partecipare a gruppi di sostegno. Possiamo aiutarci a vicenda, sia le persone affette da demenza sia chi le assiste, attraversare insieme quella landa da dottor Seuss che non è questo e neppure quello.
I miei ieri stanno scomparendo, i miei domani sono incerti, e allora per cosa vivo? Vivo giorno per giorno. Vivo nel presente. Uno di questi domani dimenticherò di essere stata qui davanti a voi a tenere questo discorso. Ma solo perché presto me ne dimenticherò non vuol dire che l’oggi non conta.
Non mi viene più richiesto di tenere lezioni sul linguaggio all’università o conferenze di psicologia in giro per il mondo. Ma oggi sono qui davanti a voi a tenere un discorso che spero sarà il più importante della mia vita. E ho il morbo di Alzheimer.
Grazie.»
Alzheimer: una malattia della quale conosco poco e niente. Si sa che si dimenticano le cose e il detto "Hai l'Alzheimer?" è usato come sfottò tra amici quando qualcuno, appunto, si dimentica le cose.
Vado su Wikipedia e questa è la definizione "Il morbo di Alzheimer, detta anche demenza senile di tipo Alzheimer, demenza degenerativa primaria di tipo Alzheimer o semplicemente di Alzheimer, è la forma più comune di demenza degenerativa invalidante ad esordio prevalentemente senile (oltre i 65 anni, ma può manifestarsi anche in epoca presenile - prima dei 65 anni)".
Ho i brividi al solo pensiero di quello che provoca questa malattia. Può accadere a tutti. Ma sembra sempre così lontano da noi. Il pensiero tremendo di quello che potrebbe essere l'alzarsi una mattina e non avere più certezza di nulla e non avere più nessuno che si riconosca come persona amica. Essere totalmente soli in un mondo totalmente tuo. Il pensiero tremendo dei famigliari, assolutamente impotenti, che si troveranno davanti una persona che non li riconoscerà più.
Consiglio a tutti di leggere questo libro perché oltre a sbatterti in faccia una realtà spesso sconosciuta come detto dalla scrittrice Brunonia Barry "SPEZZA LETTERALMENTE IL CUORE"
Questo è decisamente un argomento difficile.
RispondiEliminaLa malattia in generale è un qualcosa di difficile di cui parlare.
L'Alzheimer, come molte altre malattie, fa paura. E la cosa che spaventa di più è il fatto che un giorno potrebbe venire a noi. Senza che ce ne accorgiamo. Dimenticare le cose è sempre una cosa fastidiosa. Quando si è a scuola è dovuto al panico o al non studio ma pensate a quando state parlando con gli amici di qualcosa che vi preme dire però...non trovate il termine giusto. E siete li che vi scervellate e più lo fate...meno ricordate. Che fastidio, vero?
E che senso di impotenza! Non c'è niente che possiamo fare per far si che la nostra mente ricordi ciò che vogliamo quando lo vogliamo.
Anni fa ho avuto modo di frequentare una signora con questa malattia.
Il figlio mi aveva chiesto se potevo farle compagnia qualche ora al giorno qualche volta a settimana.
Ogni volta che arrivavo...sembrava vedermi con occhi nuovi. Mi sorrideva cortesemente e quando le chiedevo se si ricordava di me scuoteva la testa. Poi parlava con me (o tentava di farlo) e si vedeva che le faceva piacere che io fossi lì ma il giorno dopo...era come ricominciare tutto da capo.
Per me era "spiazzante".
La volta più triste fu quando ero li con suo figlio. Prendevamo insieme (tutti e tre) un gelato e lei ci raccontava di...suo figlio. Lei ne parlava come a degli sconosciuti e per lei era un bambino. Invece ce l'aveva davanti, con gli occhi pieni di lacrime. Uomo adulto che vedeva la sua mamma non riconoscerlo più.
Dev'esser qualcosa di tremendo, per chi è malato e per chi gli è vicino.
Anche in questo caso, l'unica cosa che si può sperare, è che la prevenzione e gli studi scientifici arrivino presto a trovare delle cure o dei miglioramenti che aiutino le persone a non veder la loro anima dissolversi piano piano.